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Ritorno al centro: da Patanjali ad Osho, io e lo yoga - prima parte

Nel libro L’arte di correre Murakami cita il mantra di un maratoneta: “Pain is inevitable. Suffering is optional.” Nella vita pratica significa che se stai correndo e sei stanco, la fatica è inevitabile, è ovvio che ti stanchi. Ma la possibilità di non soffrire è un'opzione esclusiva dell’individuo. Soffrire è dunque una condizione psicologica, non fisica.


Quindi non soffrire significa semplicemente essere in accordo con la verità più essenziale di sé. Ascoltare i propri limiti e amorevolmente condursi fuori dalla propria identificazione. Ci ho messo un po’ di tempo a capire che la sofferenza dipendeva da come accogliamo gli eventi che la vita ci propone. Il dolore è inevitabile. La sofferenza è opzionale. È un mantra alchemico che trasforma la sofferenza in gioia di vivere. Questo è il principio del Tantra e dello Yoga. Tutto diventa un’opportunità per imparare, sentirsi vivi e parte del mondo.


Sono convinto che le persone che incontriamo nell’arco di una vita siano maestri di esperienze. E ogni esperienza è un'opportunità per conoscersi. Esperienze che nel bene o nel male ci formano, sperimentando con coraggio più vie per essere veri. Niente di necessariamente straordinario. Semplicemente aprirsi ad accogliere gli eventi e vedere cosa succede. Un po' come scoprire una forma unendo i puntini in un gioco della settimana enigmistica.


Sono molto grato a Silvia, il mio primo tramite verso la ricerca spirituale. Mi fece conoscere il canto, lo yoga, la meditazione e il Mandala. Per chi mi conosce oggi, sa che questi sono i pilastri su cui ho costruito la mia vita degli ultimi trent’anni.


I primi mantra che ho memoria di aver cantato sono dei canti meditativi di cultura cristiana. Nasco cattolico, non praticante, ma l’anelito per il divino e la spiritualità in me c’è sempre stato. Ho sempre cercato nella meditazione e nell’arte una via di completezza.


Questa ricerca mi condusse a Taizé in Francia, una comunità di preghiera ecumenica. In questa comunità imparai i miei primi mantra. Si cantava in tutte le lingue, inglese, spagnolo, italiano, francese, latino, polacco. Un’esperienza di non-mente e nello stesso tempo di grande nutrimento e creatività. Scoprii di essere un tenore.


Questi canti risvegliarono la mia coscienza. Cominciavo a intuire una direzione, ero sempre più cosciente di chi ero e dove volevo andare. Sentivo dentro di me un’energia frizzante, che mi espandeva. Credo che l’atto di cantare mi abbia permesso di riconoscermi. I canti erano semplici, ma profondamente connessi alla libertà e alla fiducia. Bless the Lord, my soul, and bless God's holy name (Benedici Signore l’anima mia, e benedici il santo nome di Dio) e Nada te turbe, Nada te spante (Nulla ti turbi, nulla ti spaventi), erano i miei canti preferiti. In sostanza evocavo in me Benedizione e Fiducia dall’esistenza.


Fui iniziato allo yoga da un amico iraniano di nome Babak, era l’anno 1987. Ci incontravamo alle 6 del mattino in uno scantinato di un palazzo a Milano. Non andammo avanti molto con la pratica. Ricordo che lui era bravissimo ad assumere posizioni acrobatiche. Anch’io ai tempi ero elastico, ma non flessibile quanto lui.


L’altro straordinario maestro che mi introdusse allo yoga era un gesuita che parlava di Gesù. Due culture apparentemente lontane, ma unite nell'essenza. Ci insegnava yoga e ci parlava di consapevolezza, commuovendosi spesso durante la lezione. Le verità che condivideva erano così intense che gli si spezzava la voce. Il suo nome era Padre Vittorio Cappelletto. Ero entusiasta e folgorato dal desiderio di andare alla fonte di questa tradizione. Volevo assolutamente andare in India. Chiesi a Padre Cappelletto dove potessi andare a fare esperienza. Mi sconsigliò di andare in India dicendo che non ero ancora pronto. Ma la vita riserva sempre delle sorprese.


Vicino a dove abitavo c’era la bellissima Abbazia di Viboldone che risale al 1200. È abitata ancora oggi dalla comunità dalle monache di clausura dell’ordine delle Benedettine. La chiesa è piccola, intima e isolata dalla città, è il luogo ideale per pregare e meditare. A quel tempo ci andavo frequentemente. Meditavo e preparavo gli esami per la scuola superiore. Un giorno decisi di suonare al campanello della foresteria: era il 2 novembre del 1987. Mi aprì la porta una suora di circa sessant’anni. Era Suor Maria Alberta Gatti, nipote di un famoso esploratore, Attilio Gatti. Diventammo amici e ogni settimana andavo a trovarla. Io le condividevo gli eventi del mondo e lei esprimeva il suo entusiasmo e stupore esclamando “Nespole giapponesi!”. Era il suo modo delicato quasi zen per dire "Wow, pazzesco!”


Un giorno mi condivise che era stato ospite in abbazia un personaggio molto speciale. Era stata colpita dalla sua semplicità. Vestito con un semplice lenzuolo arancione. Era Bede Griffiths, un monaco inglese che viveva in India al Saccidananda Ashram. Questo luogo era conosciuto anche come Shantivanam che significa "foresta di pace". È un monastero benedettino camaldolese fondato nel 1950 dove si conciliano due tradizioni. Quella cristiana e quella induista.

Saccidananda è il nome che richiama la Santa Trinità cristiana: Padre, Figlio e Spirito Santo. Tradotto letteralmente dal sanscrito: Sat = Essere, Cit = Coscienza, Ananda = Beatitudine.


Sei mesi dopo decisi di partire per questo affascinante luogo. Era il 30 giugno 1989. Volai da Milano con scalo ad Abu Dhabi, Colombo e infine Tiruchirapalli nel Tamil Nadu. Ricordo che in aereo piansi un po’, ero spaventato, stavo andando in India da solo!


Nella mente mi rimbombavano le parole di preoccupazione di mia madre. Dall’età di 6 anni fino alla tarda adolescenza a causa di un problema agli occhi ero stato iper-protetto dalla mia famiglia e in particolare da mia madre. Non potevo fare sforzi, non potevo saltare, non potevo prendere colpi in testa: era difficile contenere la vitalità.


Fui però guidato da uno spirito esploratore, un misto di coraggio e paura, allora avevo 21 anni.


Planai nell’India selvatica, spirituale ed esotica tanto sognata. Ricordo che arrivai alla stazione degli autobus di Trichy: era tutto fumoso e caldo. Salii sull’autobus che mi fu indicato con direzione Shantivanam. Ero un po’ ansioso. Temevo di perdermi. In viaggio sull'autobus chiesi più volte con il mio inglese scolastico se stavamo andando a Shantivanam. I passeggeri mi rispondevano muovendo la testa da destra a sinistra. Interpretavo la risposta come un no. Invece era il loro modo di dire sì. Ebbi un momento di disperazione e rabbia. Non riuscivo a esprimermi e a capire.


Mi rilassai appena mi scaricarono vicino all’entrata del monastero. Percorsi qualche centinaio di metri in mezzo a un bosco prima di entrare nell’ashram. Il monastero sorgeva sulla riva del fiume Kavery tra palme, eucalipti e grandi alberi di mango. Mi ricevette Padre Martin e mi condusse nella mia stanza, una casetta di mattoni. Il tetto di foglie di palma. Due letti singoli in cemento con un materasso alto pochi centimetri, una mosquito-net appesa su due T di legno sul lato corto del letto. Una vera cella da monaco.


Nel giardino c’era la sala da pranzo che fungeva anche da Shala (sala da yoga). Tutto aperto senza infissi alle finestre. Si mangiava rigorosamente seduti a terra. Una foglia di banano come tovaglietta e il tutto servito su un piatto di alluminio senza posate. Il vitto era molto semplice. Riso, verdure, lassi e mango. Dal mango ogni tanto usciva un insetto tipo scarafaggio che viveva al suo interno. Nonostante il cambio di menù e la poca igiene stavo bene e senza effetti collaterali. Di giorno c'era sempre il sole, la notte sentivo la pioggia che batteva sulle foglie del tetto.


Stava per iniziare un viaggio alla scoperta di me stesso. Fu il primo passo verso la disidentificazione dalla mia fragilità. E l'inizio di una serie di altri incontri che avrebbero dato una nuova piega alla mia vita.


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